HITCHHIKER
di FABIO VOLINO

 

Arizona.

Il camioncino procede a velocità poco sostenuta e le frequenti buche che incontra sulla strada rallentano ulteriormente la sua corsa: ma questo per Hector Ayala non è un problema, a lui basta solamente allontanarsi dal paesaggio desolato che lo sta accompagnando da diversi minuti. Gli fa quasi paura. Come fanno quelli che ancora risiedono qui a sopravvivere, a superare ogni notte dove l’oscurità sembra davvero volerti inghiottire?
“Lei da dove viene?” chiede in quel momento il guidatore.
“Oh… sono nativo di New York” risponde Hector.
“La Grande Mela? Ci sono stato una volta, un po’ troppo caotica come città”.
“Qui come ve la passate dopo il terremoto?”.
“Di merda, se mi passa il termine: è come se fossimo isolati dal mondo. A parte i Rangers, gli altri supergruppi sono apparsi solo all’inizio, giusto per mostrare la loro ipocrisia, poi sono tornati nelle loro torri dorate. E noi siamo rimasti soli, l’ultima ruota del carro. Ci vorranno anni prima di risollevarsi da questa disgrazia”.
“Mi dispiace davvero”.
“Oh e di cosa? Accendiamo un po’ la radio per svagarci”. Intorno inizia a diffondersi musica blues, che però viene subito interrotta. “Li odio questi notiziari speciali”.
“Ancora nessuna traccia di Hector Ayala, responsabile dell’assassinio del piccolo Rick Mason. Tutti coloro che siano in grado di fornire preziosi informazioni sulla sua cattura sono pregati di mettersi in contatto con la più vicina stazione di polizia. E’ ormai assodato che Ayala si sia allontanato da New York”.
“Ho sentito parlare di questa storia” dice il guidatore “Poveraccio”.
Hector si aspettava molti commenti ed epiteti, ma sicuramente non questo. “Cosa intende dire?”.
“Magari ha avuto un motivo per uccidere quel ragazzo, noi cosa ne sappiamo? Questa società se la prende decisamente troppo con gli assassini”.
“Hanno comunque ucciso una persona”. Tutto questo discorso che stanno facendo ha come un che di surreale, sembra quasi di essere fuori dal mondo.
“La motivazione, amico mio. Quello che conta è la motivazione, l’originalità. Ti faccio un esempio. Posso darti del tu? Bene. Allora, hai visto un telone sul ripiano del camioncino?”.
“Sì, di sfuggita”.
“Perfetto. Ora, se tu avessi dato un’occhiata più approfondita a questo telone, avresti magari notato alcune macchie rosse. Ed allora ti saresti posto degli interrogativi: e magari non saresti salito. E questo è un peccato”.
Il guidatore frena bruscamente ed estrae un coltello, puntandolo alla gola di Hector Ayala, “Un peccato, dicevo, perché magari avresti sollevato quel telone ed avresti visto un corpo. Il corpo del vero proprietario di questo mezzo. E così mi avresti tolto tutto il divertimento”.

New York, ventinovesimo distretto.

Questa è una mossa decisamente azzardata, ma Cardiac ha convissuto con l’azzardo per una vita intera. Nessuno dava credito alla sua carriera da chirurgo quando è iniziata ed ora è uno dei professionisti più stimati della Costa Est degli Stati Uniti; e nessuno avrebbe ugualmente scommesso un centesimo su di lui quando ha iniziato la sua opera di vigilante contro le corrotte case farmaceutiche, invece a tutt’oggi ha eliminato numerosi mercificatori della salute umana. Gli stessi che hanno condannato suo fratello non immettendo sul mercato una medicina già testata: perché le scorte dei precedenti medicinali erano ancora ampie e c’era un profitto da perseguire. Un maledetto, dannato profitto.
La vicenda su cui sta attualmente indagando, però, non ha nulla a che vedere col profitto o con le case farmaceutiche, è più che altro una faccenda personale. Che sta facendo rapidamente crollare tutte le sue certezze.
Eli Wirtham, ancora travestito da poliziotto, entra nella stazione di polizia e si avvicina al bancone. Mostra il distintivo, dove c’è scritto il nome di un certo LAZENBY, e chiede:”Salve, sto conducendo un’indagine interna per accertare alcuni fatti accaduti il giorno in cui è stato ucciso Rick Mason”.
“Non ne siamo stati informati” dice l’agente all’accettazione.
“Ovviamente” ribatte con sicurezza Cardiac “Ultimamente abbiamo avuto troppe fughe di notizie e la stampa ha rovinato alcune nostre operazioni cardine. Comunque voglio solo sapere una cosa: i nomi dei poliziotti che si sono occupati della rapina al supermercato, che si trova in una zona di vostra competenza. Per aiutarla le mostro una foto scattata da una telecamera di sicurezza, dove si vedono chiaramente i loro volti”.
L’agente esamina la fotografia, poi scuote il capo:”Questi poliziotti non sono in servizio in questo distretto”.
“Ne è certo?”.
“Sicurissimo. Lavoro qui da vent’anni e potrei citarle i nomi di tutti gli agenti che hanno prestato e prestano servizio qui. Quelle persone non fanno parte dei nostri, devono appartenere ad un altro distretto”.
Cardiac osserva il vuoto per alcuni istanti, perso nelle sue riflessioni, poi annuisce. “Sì, deve essere così. La ringrazio”.
“Come mai tutta questa fretta di ritrovarli?”.
Una domanda che Wirtham non si aspettava, ma per fortuna trova una rapida giustificazione:”Devono testimoniare in tribunale contro Hector Ayala. Anche se ci sono le immagini ad inchiodarlo, la parola di più poliziotti è un buon metodo per convincere la giuria”.
L’agente al bancone pare non mostrare tracce di dubbio ed annuisce a sua volta. Cardiac dunque esce dalla stazione di polizia e nelle ore successive, utilizzando lo stesso travestimento e lo stesso trucco, si reca in tutti i distretti limitrofi ed in altri più distaccati. Ma la risposta è sempre la stessa: quegli agenti ripresi non fanno parte di quella zona.
Il che porta il vigilante a due conclusioni: o gli agenti che si sono occupati del caso provenivano da un distretto lontano, il che è improbabile, oppure erano lì per caso. Decisamente una bella coincidenza. E a ben pensarci né la stampa, né la televisione hanno accennato loro, di solito in questi casi lo si fa sempre con un pizzico di ipocrisia, per sottolineare il valore ed il coraggio delle forze dell’ordine. Ma forse c’è una terza conclusione, molto più assurda eppure… Non erano lì per caso, ma sapevano cosa sarebbe accaduto, ammesso e non concesso che fossero poliziotti. In ogni caso una cosa è certa.
“Qui c’è qualcosa che non va” pensa Cardiac.

Arizona.

Dopo il coltello, il guidatore estrae una pistola ed invita caldamente Hector ad andare al posto di guida. Lui lo fa: è consapevole che potrebbe liberarsi di lui con estrema facilità, eppure c’è qualcosa che lo blocca. Qualcosa che gli dice che la vera malvagità di quest’uomo deve ancora manifestarsi pienamente. Ed inizia anche a sentirlo: un tremendo, insopportabile odore proveniente da dietro.
“Parti!” gli intima l’assassino puntandogli contro la pistola.
Per un istante Hector lo guarda bene in faccia e nota particolari a cui prima non aveva fatto caso: quei suoi capelli biondi come l’oro, ma soprattutto quei suoi occhi di ghiaccio che da soli esprimono tutta la sua spietatezza. Preme dunque sull’acceleratore e i due si mettono nuovamente in moto.
“Sai, me lo ricordo ancora” narra l’assassino “Il mio primo omicidio. Oh, dovresti provarlo, ti procura una straordinaria sensazione. E la cosa bella è che è avvenuto quasi per caso. Facevo l’autostop, proprio come te, ero appena fuggito dall’orfanotrofio. E dalle suore che mi tiravano le cinghiate se mi comportavo male. Avevo quindici anni, ma ne dimostravo circa un paio di meno. Ed alla fine qualcuno si fermò: un brutto, viscido grassone, uno scarto dell’umanità. Capii subito cosa voleva farmi. E lo precedetti: estrassi il mio fedele coltellino e glielo piantai più volte nel ventre. Ero piccolo, ma già forte, eppure quel bastardo non si decideva a morire. Alla fine scaricai il corpo in una discarica e presi possesso della sua auto: nessuno avrebbe cercato quel grassone, sicuramente non aveva amici. E così è stato”.
“Hai comunque ucciso una persona” ribatte Hector.
“E allora? Vedi, io ho una mia teoria: che a questo mondo ci siano persone che meritano di morire, perché nessuno ne tiene conto, sono solo un intralcio. I tanti signor nessuno di cui questo mondo è costellato. Vecchi soli, handicappati, invalidi… sono andato a cercarli ed in questi anni ne ho ammazzati trentasette: potevo fare di meglio. Poi sono passato al livello successivo”.
“Il livello successivo?”.
“Oh sì, quello che ti dà una vera sensazione di estasi”.

Phoenix.

“Avvocato Lewis, quello che lei afferma è insostenibile”.
“Mi spieghi il perché, agente Farras” chiede Peggy Sue.
“Il fatto che lei dichiari che Hector Ayala sia innocente… non sta né in cielo né in terra. Ci sono dei filmati che lo inchiodano e si è sottratto più volte all’arresto”.
“E’ confortante sapere che, con l’attuazione dello stato di emergenza, in Arizona si sia gettato nella spazzatura il principio secondo cui una persona è innocente fino a prova contraria”.
“Non intendevo dire questo e lei lo sa. E comunque quali prove ha per sostenere questa sua tesi?”.
“Uno spietato assassino perderebbe tempo, metterebbe a rischio la sua vita per salvare dei passeggeri di un treno che non conosce?”.
“Avvocato, potrei raccontarle decine di casi in cui gli assassini si sono comportati in modo originale. Ma questo non ha impedito che alla fine venissero condannati”.
“Ah sì? In ogni caso ora parto per New York: ho un cliente da difendere”.

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Arizona.

Hector ferma il camioncino.
“Ehi, che ti prende?” gli grida il serial killer “Ti è venuta voglia di morire?”.
“No” ribatte lui “Piuttosto mi è venuta voglia di ascoltarti. Con molta attenzione. Avanti, parlami di questo livello successivo”.
Sulle labbra dell’assassino compare un sorriso che ha un che di seducente. “Fa piacere avere un pubblico così affezionato. Vedi, mio sfortunato compagno di viaggio, anch’io ero solito fare l’autostop: non ho un domicilio e dormo dove capita, non ho paura dei terreni duri. Insomma, ad un certo punto si ferma un’automobile con dentro la tipica famiglia felice. Padre, madre e la loro figlia piccola coi capelli biondi: con stampati sui loro volti dei sorrisi artefatti. Avevano visto il mio aspetto, mi ritenevano una persona gentile e a modo. Oh, come si sbagliavano”.
“E cosa è accaduto?” chiede Hector pur intuendo già la risposta.
“Non è stata colpa mia, ma di quella bambina. Lei continuava a guardarmi con quei suoi grandi occhi azzurri, io non potevo sostenere il suo sguardo. Quegli occhi… dovevo possederli. E così ho chiesto al padre di fermarsi un attimo per una finta necessità. Lui si è unito a me e, una volta lontani dalla sua famiglia, l’ho ucciso coprendogli la bocca perché non riuscisse ad urlare. Avresti dovuto vedere il suo sguardo di disperazione mentre crepava: sapeva che avrei fatto la stessa cosa con i suoi cari, sapeva che in un certo senso era lui ad averli condannati accettandomi come passeggero. Ma non poteva fare nulla. Adoro questo potere che ho sulle mie vittime”.
“Sei solo un mostro”.
Il killer punta forte la pistola contro la tempia di Hector. “Questa definizione mi ha sempre fatto incazzare, dunque hai perso il tuo unico privilegio: la tua morte sarà lenta e dolorosa. Ma prima lasciami concludere la mia storia. Tornai dalla moglie del tipo che, prima che potesse interrogarsi, lo seguì nella tomba. Con lei fui gentile, non la feci soffrire. Rimaneva infine la bambina. Mi fissò ancora negli occhi, ma stavolta sostenni il suo sguardo perché nel suo vedevo una accecante paura. Ovviamente provò a fuggire, ma il luogo in cui ci trovavamo era ampio e desolato. La afferrai, le tappai la bocca e… feci quello che dovevo fare”.
“L’hai violentata?”.
“Non sono un pedofilo. Adoro la bellezza, ma non mi spingo così in basso. Ho solo preso quanto aveva di più prezioso. Ecco”. Il killer apre un cassetto del mezzo e ne estrae un fazzoletto avvolto. Ci sono due oggetti al suo interno. “Vuoi vedere?”.
“Voglio solo farti una domanda: perché?”.
“Perché? Deve proprio esserci una motivazione per ogni cosa? Mi piace, ecco sì, mi piace”.
“Quindi il livello successivo consiste nell’uccidere le famiglie felici”.
“Sei perspicace. Sai, più elimini la felicità da questo mondo più esso precipita nel caos. Il tipo di caos in cui io vorrei vivere”.
“E questo camioncino?”.
“L’ho sottratto al suo guidatore, quello che sta lì dietro, poco prima di incontrarti. Mi serviva un mezzo di trasporto per agire al meglio. Quando ti ho visto, all’inizio ho pensato di lasciarti perdere, poi mi sono detto… perché no? Un piccolo svago prima della mia prossima famiglia felice che ho già individuato. Ed ora scendi”.
Hector obbedisce. “Sembra proprio che per me le tende si stiano per chiudere in modo eterno”.
“Fai il poeta anche in una situazione del genere? Sei proprio un povero disperato”.
Hector si volta. “Prima che tu mi dia quella morte lenta e dolorosa cui hai accennato prima, ti devo fare una domanda. Ti ricordi quando hai detto che quella famiglia si era sbagliata nel giudicarti?”.
“Sì. E allora?”.
“Hai commesso lo stesso errore nei miei confronti”.
Hector diventa la Tigre Bianca ed il killer urla di paura. Spara un colpo, ma l’eroe lo evita e lo disarma. Poi prende la sua mano e gli spezza un dito. Un altro grido, stavolta di dolore. “Urlavano in questo modo le tue vittime?” lo irride la Tigre Bianca, scaraventandolo con violenza al suolo.
“Ti prego” dice il killer “Non…”. Le sue preghiere non vengono ascoltare: Hector gli sferra un pugno al costato e poi uno al volto. Il suo setto nasale si rompe.
“Ed ora ascoltami: sai chi sono? Sono quell’assassino di cui parlava prima la radio”.
“Gno… gno”. I mugolii di disperazione del serial killer hanno un che di comico, nonostante la situazione.
“Invece sì. Ed ora ecco cosa ti farò”.

Da qualche parte.

“Come procede la digressione che abbiamo approntato per Ayala, agente Smith?”.
“E’ sulla via della conclusione” risponde costui “Ha indugiato un po’ troppo, a mio avviso”.
“Voleva solo essere pienamente consapevole della malvagità di quell’individuo. Comunque vedo che gli effetti della gemma che gli abbiamo fornito sono veramente straordinari”.
“Come poteva essere diversamente… Mr. Blue?”.

Arizona.

In una sperduta stazione di polizia, due agenti stanno sorseggiando del caffè e discutendo della presunta infedeltà delle loro mogli quando odono all’esterno il rumore di gomme che frenano bruscamente, poi un altro suono meno definibile.
Escono pistole alla mano e notano riversa a terra, boccheggiante, una persona che protende verso di loro le mani come a cercare la salvezza. “A… agenti, sono un assassino. Ho ucciso quarantuno persone, lì dietro c’è la mia ultima vittima. Vi darò le prove, vi dirò dove ho seppellito i corpi. Solo vi prego, non lasciate che quel mostro torni da me”.
Ma nei dintorni non c’è nessuno. I due poliziotti si osservano con fare interrogativo, poi si apprestano ad ascoltare una lunga confessione.

Un paio di ore dopo.

Una figura solitaria cammina per le strade, ancora in parte dissestate, di questa regione martoriata da troppe tragedie. La figura di Hector Ayala. Ripensa a quanto appena accaduto: ha di nuovo perso il controllo. Ma quell’essere era così spregevole che ad un certo punto… è come se qualcun altro avesse preso il suo posto per qualche istante. Qualcuno molto più spietato. La sua parte oscura?
Hector china il capo per osservate la gemma che porta al collo, ma prima di iniziare una lunga e forse inutile riflessione sul potere e sulle responsabilità qualcuno lo richiama.
“Dunque ci rivediamo nuovamente, Mr. Ayala”.
L’eroe si volta. C’è l’agente Pratt davanti a lui. “Cosa vuole ancora?”.
“Dobbiamo passare al livello successivo”. Hector rabbrividisce nel sentire questa frase pronunciata poco fa dal serial killer. A proposito, qual era il suo nome? Non gliel’ha chiesto.
Pratt si toglie il soprabito e gli occhiali: stava decisamente meglio quando li aveva addosso. “Ora lei dovrà affrontarmi, Mr. Ayala, che le piaccia o meno. E da questo scontro dipenderà l’esito del suo viaggio”.
La Tigre Bianca è stata calata in un incubo dal quale sembra non poter uscire. Un incubo pieno di enigmi. Eppure c’è stato un tempo in cui lui era un eroe diverso, un tempo in cui era netta la distinzione tra buoni e cattivi. Un tempo pieno di innocenza ed ingenuità che Hector Ayala non può fare a meno di ricordare e rimpiangere.

CONTINUA...

PROSSIMAMENTE

Un tuffo nel passato